martedì 13 luglio 2010
Il bisogno che crea il prodotto. Vecchia mentalità?
Credo fortemente, infatti, che il bisogno crei il prodotto.
Sul mercato nascono spesso oggetti, considerati "di design", che puntano sull'idea inversa che il prodotto crea il bisogno.
Stiamo avvicinandoci sempre di più ad una mentalità futile, in cui gli oggetti inutili la fanno da padrone su quelli che potrebbero avere una valenza speciale, invenzioni che potrebbero essere considerate "geniali". Quelli che erano inventori di "cose" utili, non esistono più e si sta percependo un'impatto di maketing che punta a vendere agli utenti ciò che ancora non possono toccare con mano.
E' il bello del marketing, è il bello della comunicazione, cercare di vendere "aria fritta", cercare di vendere ciò che ancora non si vede, ciò che gli "stolti" vorrebbero, non perchè è utile, ma perchè se ne parla.
Ed è appunto il parlarne, il discuterne, che crea la diffusione del messaggio, del prodotto, ora.
Non vorrei si pensasse ad una mia mentalità da designer conservatore (amo il mio lavoro, anche per questo), ma è solo una questione "forse" di etica, di morale e anche "pour parler":
è giusto vendere un oggetto che non ha un'effettiva utilità pratica?
Probabilmente vi sono oggetti che hanno una praticità per determinati fasce di persone, per determinate persone o professioni, e quindi si cerca di ampliare il target dando in pasto il prodotto a più persone possibili, non pensando però anche al danno che si può creare, sia nella mente dei compratori, sia nell'impatto ambientale.
Non desidero tirare fuori i nomi dei prodotti, ma basta dare un'occhiata rapida al mercato, per rendersene conto.
"A cosa ti serve?", "Ma cosa te ne fai?", spesso sono le domande più classiche che il futuribile target si sente rivolgere, e a cui lui risponde classicamente "Tanto non puoi capire".
Purtroppo però è lui stesso che non riesce a capire quali strategie mirate di comunicazione vi siano dietro per farlo abboccare.
C'è da dire anche che tutto questo può sembrare ridicolo, c'è da dire che la persuazione occulta può sembrare essere solamente possibile in Lost.
E c'è da dire inoltre che io non sono nessuno.
E voi? Chi siete?
lunedì 5 luglio 2010
Tra mito e realtà: il brainstorming
“E fate un brainstorming allora?” ho sentito varie volte questa frase, pronunciata con il tono entusiasta e pieno di aspettative del giovane che vorrebbe tanto assistere al magico evento…oppure con il tono canzonatorio di chi si domanda quale caos mentale possa mai generare buone idee.
Il brainstorming è spesso infatti diventato un termine un po’ abusato e modaiolo, momento creativo per antonomasia e sinonimo al contempo di riunione confusa e disordinata.
Ma il brainstorming non è un momento magico né un momento di caos …è un metodo, un metodo dove l’imperativo è lasciare libero il concatenarsi delle idee nell’ottica di generare con questo nuove visioni e aprire nuove prospettive per affrontare problemi, invenzioni ecc. con approcci non standard.
Di qui l’uso frequente in ambito pubblicitario dove il non-convenzionale, ciò che può stupire e incuriosire è spesso un must del lavoro. Di qui la creazione di un nuovo “mito” in un mondo che già sembra spesso fumoso e indefinito, quello dei “creativi”, di quelli che hanno le idee, un po’ estrosi, dormono poco la notte, vestiti male o comunque fuori dagli schemi sociali… di quelli che siedono intorno ad un tavolo e si fanno pagare (poco ormai!) per sparare cose strampalate da condire bene e vendere al cliente per la sua prossima campagna…
Del resto nel 1995 Jacques Sequela intitolava il suo libro “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello”